L’accertamento tributario non può essere basato unicamente sulla confessione resa dal fornitore, che abbia riconosciuto di aver emesso delle fatture false, i cui pagamenti venivano restituiti in gran parte ai committenti, effettuando dei prelievi e trattenendo il solo importo pattuito con il cliente per il «servizio».
Una tale dichiarazione, da sola, non ha valenza di presunzione grave, precisa e concordante e deve essere accompagnata da ulteriori elementi di riscontro, per sorreggere validamente la pretesa erariale.
È quanto si legge nella sentenza n. 551/08/14 della Ctp di Bergamo, conclusasi con l’accoglimento dei ricorsi proposti da un gruppo d’impresa operante nel campo della musica.
La verifica fiscale condotta dalla Guardia di finanza prendeva spunto dalle dichiarazioni rese dal titolare di una ditta che forniva prestazioni di servizi in favore delle società di Bergamo: tale soggetto aveva reso una confessione inerente alla falsità dei documenti fiscali emessi, ammettendo che trattavasi di fatture gonfiate, per le quali risultavano effettuati i pagamenti integrali degli importi che venivano, poi, prelevati in contanti e restituiti ai committenti. L’ammissione in parola veniva considerata, dagli accertatori, alla stregua di una confessione ex articolo 2730 del c.c., intesa come «la dichiarazione che una parte fa della verità di fatti a essa sfavorevoli e favorevoli all’altra parte» e avente valore di prova. Sulla base di tali risultanze istruttorie, apparentemente schiaccianti, l’ufficio finanziario emetteva gli avvisi di accertamento.
La Ctp ha annullato gli atti impositivi osservando che «nessun altro elemento, riscontro o indagine anche bancaria, risulta a carico dei ricorrenti», ragion per cui «si deve concludere per l’insussistenza dei requisiti della gravità, precisione e concordanza» atteso che le dichiarazioni del fornitore non sono sufficienti, da sole, a legittimare l’accertamento.
Vi è di più che, aggiunge il collegio, una tale ammissione del fornitore non si può nemmeno configurare come una vera e propria confessione poiché il fornitore ha in tal modo dichiarato di aver percepito «guadagni inferiori al reale, con la conseguente minor tassazione»; dunque, per quanto sembri paradossale, non si può sostenere che egli abbia rappresentato una verità «a esso sfavorevole», come richiesto dall’articolo 2730 del c.c., e certamente tale dichiarazione non appare «favorevole all’altra parte», ovvero quella che riceve l’accertamento.
Considerata la particolarità della questione trattata, la Commissione ha concluso per la compensazione delle spese di giudizio.
fonte: www.italiaoggi del 24.11.2014