Se un professionista, durante l’attività di accertamento presso il proprio studio, non consente l’accesso a determinati documenti rivendicando il segreto professionale, i controllori sono tenuti a sospendere l’attività di verifica e richiedere all’autorità giudiziaria la necessaria autorizzazione. E solo se la stessa viene concessa avranno la possibilità di riprendere l’attività di verifica finalizzata alla conseguente legittima acquisizione dei documenti. E’ quanto chiarito dalla Cassazione penale con la sentenza n. 34020/2020.
Così una società coinvolta in una frode fiscale, dopo la raccolta di alcune prove attraverso il proprio avvocato, ha visto respinto il suo ricorso. L’acquisizione dei documenti da parte dei soggetti preposti ai controlli era stata possibile dopo il via libera ottenuto da un magistrato.
Nonostante il caso specifico, la Suprema corte conferma la possibilità del professionista di “eccepire” il segreto professionale in caso di un’attività di accertamento in corso nel suo studio, al fine di far sospendere il controllo in attesa che un giudice ne dia l’autorizzazione.
I giudici cassazionisti hanno tuttavia escluso dalla copertura del segreto professionale:
- gli atti pubblici – i quali, proprio per la loro natura, non sono coperti dal segreto;
- le scritture contabili – sia quelle del professionista che quelle del cliente, trattandosi di atti che la legge impone di redigere anche al fine di documentare e rendere accessibili al fisco i fatti che attengono all’attività economica esercitata dai contribuenti e le cui annotazioni, comunque, nulla rivelano in ordine ai contenuti dell’attività professionale prestata;
- le fatture e le ricevute fiscali emesse dal professionista – in quanto, trattandosi di documenti che, per legge, devono essere conservati proprio in vista di un possibile controllo fiscale, appare irragionevole ritenere che possano essere sottratti all’ispezione anche attraverso l’eccezione del segreto professionale.