A cinque mesi dalla sua entrata in vigore, risalente al 15 novembre 2021, gli effetti della composizione negoziata della crisi d’impresa sono ancora lontani dalle aspettative più lusinghiere della vigilia.
Il nuovo strumento implementato per evitare il fallimento delle imprese a rischio ma con possibilità di risanamento, ha un riscontro deludente: secondo gli ultimi dati di Unioncamere, solo 175 aziende hanno deciso di utilizzare questo strumento, rispetto alle migliaia di imprese che si rivolsero al tribunale per ottenere le misure di protezione del patrimonio e avviare un percorso di risanamento con il concordato preventivo.
La ragione che, più di ogni altra, frena il ricorso alla Cnc riguardano l’eccessiva burocrazia e le numerose incertezze sugli esiti della procedura di composizione negoziata. Alla richiesta di cnc serve infatti allegare il certificato unico dei debiti tributari e quello per i debiti contributivi: documenti che nella pratica non vengono rilasciati prima di tre mesi. Serve quindi aspettare molto tempo senza avere la certezza che alla fine il giudice possa convalidare le misure di protezione richieste.
Un altro motivo per cui le aziende guardano con scarsa fiducia alla composizione negoziata è di natura reputazionale, in particolare nei confronti delle banche, dinanzi alle quali l’impresa di piccole dimensioni tende a nascondere il suo stato di crisi fino al limite del possibile per non guadagnare il loro scetticismo.
La Cnc, dunque, non sembra essere una soluzione di facile adozione, e nemmeno essere efficace quanto il concordato preventivo. Un’impresa in difficoltà necessita anzitutto di certezza nei tempi e nelle decisioni, oltre che di evitare che i creditori possano agire in pregiudizio alla continuità aziendale dando corso alle istanze di fallimento. Risulta invece più conveniente e sicuro avviare una domanda di concordato preventivo, vista con maggior favore anche dai tribunali fallimentari perché sotto la loro diretta vigilanza.