Il recente attacco, datato 14 settembre, contro gli impianti petroliferi in Arabia Saudita, prospetta questo rischio di natura economica oltre a frenare le prospettive di un riavvicinamento tra Teheran e Washington.
“L’attacco è stato sferrato mentre il Presidente Trump stava ipotizzando la possibilità di allentare le sanzioni contro l’Iran per indurre i leader iraniani a negoziare un nuovo accordo sul nucleare. La leadership di Teheran nega di essere dietro l’attacco, anche se i ribelli Houthi in Yemen, che sostengono l’Iran, hanno rivendicato l’azione”, riporta il Global Committee for the Rule of Law.
L’esplosione ha causato una riduzione del 5% delle forniture globali di petrolio, i cui prezzi sono saliti alle stelle in Asia e in Europa. Il 16 settembre, a Londra è stata registrata un’impennata del 20% , il picco più alto raggiunto in un solo giorno dagli anni ’80, con un barile di greggio Brent che ha raggiunto i 71 dollari.
“Non abbiamo mai visto un’interruzione dell’offerta e un conseguente rialzo dei prezzi come questo”, ha detto a Bloomberg Saul Kavonic, analista nel settore energetico del Credit Suisse.
Il Wall Street Journal ha riportato che, dopo l’attacco, la produzione di greggio dell’Arabia è quasi dimezzata: questo comporterebbe la scomparsa di quantitativi importanti di mercato, e con effetti tanto più impattanti quanto più sarà lungo il fermo. Secondo quanto stimato dagli analisti, potrebbero volerci settimane prima che l’Arabia Saudita torni alla piena capacità di approvvigionamento, causando un aumento fino a 10 dollari del prezzo del greggio.
I prezzi del petrolio al barile, con la presidenza Trump e le problematiche con l’Iran, sono passati da 80 a 60 dollari, ma bisogna comunque attendere le reazioni saudite.
Grazie alla ricchezza del Paese, gli impianti verranno ripristinati molto velocemente.