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L’inadempimento contrattuale a causa della crisi da Covid-19

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In un periodo congiuntura negativa per le attività economiche e commerciali è divenuto di primaria importanza interrogarsi sul rilievo giuridico del mancato o ritardato adempimento delle obbligazioni in ambito contrattuale, per capire se questo possa o meno ritenersi giustificato alla luce dei recenti avvenimenti.

Il legislatore ha dedicato alla questione un’apposita disposizione, inserendo all’interno del cosiddetto Decreto Cura Italia (il Decreto Legge n° 18 del 22 marzo 2020) un’apposita previsione normativa favorevole alla posizione del debitore. L’art. 91 del citato decreto, infatti, è espressamente dedicato alle “Disposizioni in materia di ritardi o inadempimenti contrattuali derivanti dall’attuazione delle misure di contenimento e di anticipazione del prezzo in materia di contratti pubblici” e stabilisce il principio generale in base al quale il rispetto delle misure di contenimento è sempre valutato ai fini dell’esclusione della responsabilità del debitore, anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardi o ad omessi pagamenti.

Cosa stabilisce il Decreto Cura Italia riguardo il mancato o ritardato adempimento delle obbligazioni contrattuali?

L’art. 91 opera un esplicito richiamo a due fondamentali disposizioni che informano l’intera materia contrattualistica, l’art. 1218 e l’art. 1223 del Codice Civile, e suggerisce dunque che la lettura della nuova disposizione debba avvenire necessariamente “ai sensi e agli effetti” di quanto stabilito dal Codice in materia di responsabilità del debitore e di risarcimento del danno derivante dall’inadempimento del contratto.

La disposizione in esame presenta un chiaro elemento di specialità rispetto alle disposizioni codicistiche e ai tradizionali rimedi azionabili in ambito contrattuale: ciò che rende scusabile e giustificabile il ritardato o mancato adempimento, e che quindi consente l’esclusione della responsabilità del debitore, è la condizione che questo sia conseguenza diretta delle misure autoritative disposte per il contenimento dell’epidemia.
In altri termini, l’art. 91 del Decreto Cura Italia si rivolge non a tutte le attività e le obbligazioni in qualche misura investite dalle conseguenze connesse all’epidemia in quanto tale, ma solo a quelle toccate in maniera diretta ed inequivocabile dalle misure che hanno disposto il cosiddetto “lock down”: fanno parte di questa categoria, per esempio, i bar, i ristoranti, le scuole, gli asili, i negozi e le attività commerciali latamente considerate.  A tal proposito è bene ricordare che rimangono escluse dall’ambito di operatività della disposizione le attività inserite nel codice ATECO, così disposte dal provvedimento D. MISE del 22 marzo 2020.

Sebbene l’art. 91 del Decreto Cura Italia sancisca l’irresponsabilità del debitore in caso di mancato o ritardato adempimento delle proprie obbligazioni, esso costituisce tuttavia una mera dichiarazione di principio e non è di per sé sufficiente per capire quale sia la disciplina applicabile e quali siano le azioni esperibili perché debitore e creditore possano al meglio tutelare i propri interessi.

È possibile sospendere il pagamento dei canoni di locazione dei locali della propria attività? È possibile dilazionare il pagamento dei canoni arretrati? È possibile chiedere uno sconto al locatore?

La risposta a questi interrogativi dipende da come decidiamo di applicare, alla luce di quanto disposto dall’art. 91, i rimedi che ci offre l’ordinamento.
I migliori strumenti che a tal proposito ci vengono in soccorso sono la rinegoziazione del contratto secondo buona fede e l’impossibilità sopravvenuta temporanea all’adempimento.

  • Il dovere di “buona fede” informa l’intera materia obbligazionaria e contrattuale ponendosi come norma di chiusura del sistema, utile a colmare le eventuali lacune lasciate dal legislatore, e viene definito principalmente in via interpretativa come dovere di ciascuna parte di realizzare l’interesse contrattuale dell’altra o di evitare di recarle danno, anche attraverso ulteriori adempimenti non previsti dalla legge o dal contratto: tra le prestazioni accessorie potrebbe in linea di principio ipotizzarsi, nel nostro caso, un obbligo di rinegoziare, nei contratti di durata, qualora siano intervenuti significativi mutamenti dell’originaria base contrattuale. Nonostante la clausola di buona fede possa a prima vista apparire astratta e poco aderente alle proprie esigenze concrete, bisogna ricordare che essa opera attivamente come criterio fondamentale tanto nell’interpretazione quanto nell’applicazione di ogni accordo contrattuale.
  • L’impossibilità sopravvenuta all’adempimento è regolata dall’art. 1256 c.c. che, al comma 2, si occupa dell’ipotesi in cui tale impossibilità sia solo temporanea e non definitiva: in questo caso si prevede, da un lato, che il debitore non possa essere considerato responsabile del ritardo finché l’impossibilità perdura e, dall’altro, che l’obbligazione possa arrivare ad estinguersi nel caso in cui l’impossibilità perduri fino a quando, in relazione al titolo dell’obbligazione o alla natura dell’oggetto, il debitore non possa più ritenersi obbligato ad eseguire la prestazione o il creditore non abbia più interesse a conseguirla.
    L’attività interpretativa della nostra giurisprudenza di legittimità ha rivestito un ruolo chiave nella comprensione dell’istituto dell’impossibilità sopravvenuta, fornendo gli spunti indispensabili per riempire di contenuto la lettera del Codice Civile: la Corte di Cassazione, infatti, ormai da decenni sostiene che “l’impossibilità sopravvenuta alla prestazione produce la liberazione del debitore solo se consiste in un impedimento oggettivo, assoluto e definitivo, mentre la mera difficoltà all’adempimento o l’impossibilità temporanea alla prestazione producono soltanto la sospensione del contratto.” (Cass. Civ. 794/1979)

Le soluzioni applicative che potrebbero scaturire dalla lettura delle norme generali in materia di contratti vanno dalla sospensione dei canoni arretrati, alla richiesta di essere legittimati al loro mancato pagamento, alla richiesta di appositi accordi di dilazione, alla pattuizione di nuovi assetti contrattuali rinegoziati.

Dal combinato disposto degli strumenti della rinegoziazione e dell’impossibilità sopravvenuta, letti alla luce dell’art. 91 del Decreto Cura Italia, emerge un’ipotesi che appare forse come la più convincente in ottica di conservazione del contratto: la possibilità da un lato, di richiedere il cosiddetto “congelamento dei canoni”, ossia la sospensione del pagamento fino al momento della cessazione del “lock down” e, dall’altro, di rinegoziare le condizioni del contratto per rendere meno onerose per il futuro, dal momento che un canone che prima del “lock down” poteva considerarsi equo potrebbe invece non essere più sopportabile da un debitore che abbia assistito ad una considerevole diminuzione del proprio flusso di lavoro e dei propri introiti nelle mensilità appena precedenti alla riapertura.

Il risvolto positivo è che l’applicazione di questa disciplina potrebbe consentire alle parti non tanto di risolvere le posizioni contrattuali aperte, possibilità ragionevolmente non auspicata dai titolari di posizioni contrattuali di carattere continuato o di durata, ma piuttosto di rinvenire una soluzione operativa adeguata alle proprie esigenze specifiche senza pregiudicare in toto gli obiettivi che il contratto voleva raggiungere.

Va tuttavia sottolineato che, in assenza di una specifica clausola contrattuale espressamente orientata in tal senso, la possibilità di sospendere legittimamente il pagamento del canone e di rinegoziare in senso più favorevole le condizioni contrattuali è esperibile solo previo accordo con la propria controparte: nel caso delle locazioni, con il proprio locatore.

È pur vero che l’ordinamento appresta un altro strumento dirimente che potrebbe apparire adeguato a questi casi, l’eccessiva onerosità sopravvenuta per causa forza maggiore, di cui si occupa l’art. 1467 c.c. L’esperimento di tale rimedio ai contratti di durata e/o ad esecuzione continuata investiti dal “lock down” tuttavia suscita delle perplessità. Innanzitutto, lo strumento in questione è rivolto principalmente ad ottenere la risoluzione del contratto, e non la conservazione dello stesso eventualmente a condizioni nuove e più favorevoli. Nel caso delle locazioni, la facoltà di modificare equamente le condizioni del contratto, a fronte della risoluzione proposta dal conduttore, spetterebbe unicamente al locatore che potrebbe anche non accoglierla e propendere per la risoluzione.

Anche in questa seconda ipotesi, tuttavia, la pronuncia di risoluzione avrebbe efficacia ex nunc, ossia unicamente per il futuro e senza efficacia retroattiva: essa quindi non impatterebbe in alcun modo sui canoni precedenti alla pronuncia e, in tal modo, il conduttore rimarrebbe comunque obbligato al pagamento.

La questione della vigenza dei contratti può considerasi risolta?

Senza ombra di dubbio, la questione della vigenza dei contratti all’epoca del COVID -19 è ben lontano dall’essere univocamente risolta e, probabilmente, mai lo sarà in via definitiva, sia per l’elasticità e la malleabilità dei principi cardine della normativa contrattuale, che si prestano a diverse interpretazioni ma sanno sempre adeguarsi al variare dei tempi, sia per la molteplicità di esigenze, differenti per ogni singolo contratto, che mal si attagliano a classificazioni tassative e troppo rigide.

Allo stato dei fatti, vista altresì la sospensione dei termini processuali, si ritiene ragionevole sospendere il pagamento dei canoni di locazione, in caso di difficoltà economica del conduttore, fino alla fine dell’emergenza sanitaria, all’esito della quale le parti potranno concordare un piano di rientro per i canoni pregressi ed un’eventuale rinegoziazione delle condizioni contrattuali.

Approfondimento a cura dello Studio Legale Colombetti

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