La decisione del Regno Unito di attivare l’articolo 50 del Trattato istitutivo dell’Unione Europea, in seguito al referendum del 23 giugno 2016, ha sollevato un ampio dibattito che ha toccato vari ambiti, da quello giuridico a quello politico-economico, fino ai temi istituzionali, sociali, storici e culturali.
Volendo ulteriormente allargare lo scenario d’analisi, questo approfondimento tende a valutare come la cosiddetta Brexit possa essere per Londra anche l’occasione per porre nuovamente al centro le sue politiche istituzionali ed economiche nell’ambito del Commonwealth.
Non sono stati pochi i commentatori che in patria hanno sollevato tale questione, mentre a livello internazionale poco o nulla si è detto in proposito, privilegiando gli scenari “tecnico-giuridici” della procedura di uscita da un lato e le conseguenze politico-economiche dall’altro.
L’oblìo nel quale era caduto il Commonwealth ha dunque avuto Oltremanica un’inaspettata interruzione. Che si possa tornare a parlare di “impero”, in un periodo storico caratterizzato dalla crisi delle rappresentanze e l’esaltazione dei nazionalismi, dimostra come la ricerca di un nuovo equilibrio globale possa passare anche attraverso assi e canali già storicamente sperimentati.
A questo proposito non deve sfuggire l’atteggiamento estremamente volitivo del Primo Ministro Theresa May, in occasione del cosiddetto Brexit speech, tenuto alla Lancaster House, il 17 gennaio 2017: “Instinctively, we want to travel to, study in, trade with countries not just in Europe but beyond the borders of our continent.
Even now as we prepare to leave the EU, we are planning for the next biennial Commonwealth Heads of Government meeting in 2018 – a reminder of our unique and proud global relationships”.
Del resto, il lungo periodo coloniale e la “narrazione” appunto dell’Impero hanno sempre avuto – e in parte continuano ad avere – grande presa sull’opinione pubblica britannica, ancora oggi fortemente legata alla Corona. Non dunque un argomento solo nostalgico o populista, ma un vero e proprio scenario sul quale il Governo inglese ha l’opportunità di investire, anche per rafforzare le proprie armi in chiave negoziale con Bruxelles, vista la delicatezza del percorso di “uscita” che si è avviato formalmente il 29 marzo scorso, con la consegna della lettera indirizzata al Presidente della Commissione Europea Donald Tusk, firmata da Theresa May, con la citata richiesta di attivazione dell’articolo 50 del Trattato.
Di certo non si può immaginare che l’Unione Europea, così come le altre potenze commerciali mondiali, assista in modo neutrale a questa possibile evoluzione, anche perché la maggior parte dei Paesi del Commonwealth ha autonomi e solidi rapporti con le istituzioni comunitarie e diventerebbe difficile, agli occhi di Bruxelles, lasciar passare senza criticità diplomatiche una sorta di “collaborazione dedicata” con il Regno Unito che vada a penalizzare ulteriormente gli equilibri economici dei Paesi membri della Ue, che già dovranno fare i conti con il costo della Brexit, hard o soft che sia. Ma cosa è il Commonwealth of Nations, oggi?
I 52 Paesi che lo compongono attualmente sono sparsi in tutti e cinque i continenti e complessivamente contano 2,4 miliardi di persone, un numero rilevante che unisce realtà a scarsissimo reddito e Paesi ricchi, piccole estensioni territoriali a grandi distese.
Tra l’altro, oltre un miliardo dei suoi abitanti ha meno di 25 anni. Solo negli ultimi 40 anni la ricchezza economica del Commonwealth è cresciuta del 2,6% in più rispetto a quella dell’Eurozona, in special modo per le politiche di sviluppo di Paesi membri come India, Canada, Australia, Singapore e Malesia che da sole valgono l’80% degli scambi commerciali.
Gli ultimi dati a disposizione, confermano questo positivo trend: “The combined gross domestic product of Commonwealth countries is estimated at US$10.4 trillion in 2017 and predicted to reach US$13 trillion in 2020.