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Quando l’internazionalizzazione diventa business per i burocrati.

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Le imprese italiane che cercano sbocchi sui mercati internazionali, vuoi per stabilire all’estero nuovi impianti produttivi oppure più semplicemente per esportare i propri prodotti, spesso hanno dimostrato di essere le più innovative e le più resistenti del tessuto imprenditoriale italiano.

La conferme di ciò emergono da molti dati che piazzano l’Italia al secondo posto solo dietro la Germania per numero di migliori performace nelle 14 classifiche di competitività relative ad altrettanti settori del commercio mondiale.

Spesso, però, le aziende che decidono d’internazionalizzare sono state anche le più lungimiranti. Decidere di operare all’estero ha consentito loro di non essere totalmente investite dagli effetti negativi della crisi del nostro mercato interno.

Da qualche tempo, però, su export e internazionalizzazione si è alzato un velo di retorica ed iprocrisia : si è perso il conto dei convegni organizzati sul tema da Dipartimenti ministeriali, camere di Commercio, Associazioni di Camere estere, spesso associati a richieste di maggiori investimenti pubblici a sostegno delle imprese che decidono di imbarcarsi in operazioni di internazionalizzazione.

Sia chiaro, la nostra ossatura imprenditoriale e produttiva è composta per la maggioranza da Pmi, e queste ultime sicuramente hanno bisogno di sostegno per andare oltre confine, per affrontare costi spesso proibitivi – rispetto alle imprese più grandi – per ricevere informazioni, scegliere, spostarsi e garantirsi un posto sui mercati internazionali; quindi è ovvio che, come in tutta l’Unione Europea ci siano forme di aiuto pubbliche.

Ma spesso l’equazione “più risorse pubbliche” uguale “più PMI all’estero”, non si avvera, in quanto, non solo pesano cari al contribuente ma alimentano spesso solo le lobby burocratiche pubbliche.

Sia la Banca d’Italia che la Corte dei Conti, in questi ultimi anni, hanno denunciato il numero eccessivo di regole ed enti pubblici del nostro “Sistema Paese”. Troppe regole ed enti pubblici o para-pubblici, che spesso nella loro azione si sovrappongono fra loro. Conferenze e convegni, spesso autoreferenziati, che invece di generare valore aggiunto, determinano solo “spesa improduttiva”.

Era il 2010, quando il leader di Confindustria di allora, la dott.ssa Marcegaglia, dalle colonne del SOLE 24 dichiarava espressamente: «Il sistema Italia all’estero che è un disastro. Ognuno va per i fatti propri. Le ambasciate fanno delle cose, le Regioni ne fanno altre, le Camere di Commercio estere altre ancora: spendiamo molti soldi per la promozione ma non diamo un reale vantaggio, un reale servizio alle imprese che vogliono promuoversi all’estero. Un’impresa che vuole andare in Cina o in Tunisia deve sapere a chi rivolgersi, e lì deve trovare tutto il sistema paese che lo aiuta a promuoversi».

Cosa è cambiato da allora? Perfettamente nulla.

Sono cambiati i governi nazionali e regionali, ma l’ossatura fallimentare della nostra politica d’internazionalizzazione è rimasta tale. Un “guazzabuglio burocratico” di operatori pubblici che con parole e documenti tentano di dimostrare la loro necessità di esistere, ma con risultati scarsissimi e privi di consistenza per il settore produttivo.

Il caso emblematico è il sistema legato ad Assocamestero, l’associazione che raggruppa le Camere di Commercio riconosciute all’estero nella quale è socio anche Unioncamere che a sua volta è l’ente pubblico che unisce e rappresenta istituzionalmente il sistema camerale italiano. Le Camere di Commercio Estere, altro non sono che associazioni giuridicamente costituite in Stati esteri che però vengono sovvenzionate dallo Stato Italiano per l’esecuzione di progetti per l’internazionalizzazione delle piccole e medie imprese in esecuzione della legge 7 agosto 2012, n. 134.

Ai sensi dell’art. 6 del D.M. 24 aprile 2014 ai fini dell’erogazione del contributo le CCIE devono presentare, ogni anno, la domanda di liquidazione del contributo e la rendicontazione di spesa del programma promozionale realizzato. Non solo, le stesse devono presentare una relazione che illustri l’attività promozionale realizzata, l’indicazione delle spese sostenute per la realizzazione del Programma promozionale, la copia del bilancio consuntivo approvato, l’elenco soci e ad altri documenti finalizzati solo all’erogazione del contributo.
Ma in concreto, nessuna verifica viene effettuata sui risultati  che vengono ottenuti da queste attività, ma ancor più grave la mancanza totale di controlli sugli adempimenti giuridici che queste associazioni hanno obbligo di effettuare nello Stato in cui hanno sede. Un esempio per tutti, la pubblicazione e registrazione dei bilanci agli organi di controllo nazionali di competenza, ai fini della trasparenza.

Non è un caso che in un intervista del 27 luglio 2016, rilasciata al Fatto Quotidiano, Il vicepresidente di UnionCamere Basilicchi, dichiarò che ” le Camere di Commercio non devono andare all’estero, perché c’è l’Ice. Invece di duplicare le missioni facciamo noi da connettore fra l’Ice e le imprese, come gli abbiamo proposto due anni fa.”

Il pericolo, ormai concreto è che l’internazionalizzazione italiana, sia diventata un “affaire” solo per i burocrati…

di Sergio Passariello

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