Tra gli interventi in materia penale operati dal d.l. n. 34/2020 – c.d. Decreto Rilancio, ne spicca uno relativo alla disciplina del “contributo a fondo perduto”, di cui all’art. 25 del suddetto decreto. Specificamente, si introducono nuove disposizioni e un nuovo delitto che mirano a prevenire e reprimere le indebite percezioni di erogazioni e sussidi pubblici, e più in generale quelle condotte che, attraverso il mendacio, in un contesto quale l’attuale in cui domina l’autocertificazione, finiscono per alterare e viziare le procedure amministrative a sostegno dell’economia.
Requisiti di accesso al “contributo a fondo perduto”
Il “contributo a fondo perduto” è previsto dall’art. 25 del Decreto Rilancio “al fine di sostenere i soggetti colpiti dall’emergenza epidemiologica Covid-19” ed è riconosciuto “a favore dei soggetti esercenti attività d’impresa e di lavoro autonomo e di reddito agrario, titolari di partita IVA” (sono previste esclusioni sulla base di limiti di reddito).
Tale ausilio, il cui importo minimo è pari a 1000 euro per le persone fisiche e a 2000 euro per le persone giuridiche, è calcolato sulla base di criteri di calcolo che fanno riferimento alla differenza tra l’ammontare del fatturato e dei corrispettivi del mese di aprile 2020 e l’ammontare del fatturato e dei corrispettivi del mese di aprile 2019.
Il contributo è erogato a seguito di istanza all’Agenzia delle Entrate, comprensiva di una
“autocertificazione di regolarità antimafia” nella quale si attesta l’insussistenza delle condizioni ostative di cui all’art. 67 d.lgs. n. 159/2011 (Codice antimafia), cioè di non essere sottoposto a misure di prevenzione o a procedimento di prevenzione. Per l’attività di controllo si richiama il Libro II del Codice antimafia, prevedendo che, in caso di successiva emersione di cause ostative, l’Agenzia delle Entrate provveda al
recupero del contributo.
Questo è un estratto dell’approfondimento pubblicato dallo studio legale Loconte&Partners. Per consultare il documento completo vai al seguente link: